oggi inizio una breve rubrica in cui vi racconterò come nasce il mio Orpheus.
Parto con il dirvi che Orpheus è il primo volume della trilogia da me scritta dal titolo omonimo.
Perché ho scelto questo titolo?
Semplicemente perché fin dai tempi del liceo ho amato questa storia, dapprima la versione di Ovidio e poi la versione di Virgilio nelle Georgiche (Georgiche IV 452-527)
Amore e musica, due temi a me molto cari. Chi mi conosce da anni, ha una memoria chiara di me durante il periodo del liceo: appunto io ed il mio inseparabile walkman, in cui ascoltavo gli Alphaville, i Duran Duran, gli a-ha e le compilation che creavo per me e le mie amiche.
Sempre con il walkman nelle orecchie, a casa scrivevo storie, fantasticando una vita diversa da quella che avevo, inseguendo il sogno di una moderna Cenerentola dove il Principe era una rockstar, che con il tempo prese la forma di un vampiro che per pura ribellione divenne una rockstar, avete di sicuro capito che parlo di Lestat, e Intervista con il vampiro di Anne Rice, che ritengo la mia mentor.
Da sempre amo la musica in tutte le sue sfumature e quando scoprii questa tragedia mi innamorai subito di questo sfortunato e tormentato poeta che incantava tutti con la sua lira, non era un vampiro, ma trovarlo nelle versioni di latino mi fece vedere questa materia con occhi diversi; sognando, fantasticando di diventare un giorno l'Euridice di un qualche poeta e musicista tormentato e magari pure immortale. 😊
Iniziai ad immaginarmi subito come avrei scritto una versione moderna di questa storia, fu un desiderio che nacque improvviso e per anni è rimasto latitante nella mia testa e nei miei appunti, poi la trama che mi si svela ed inizio a lavorare al tutto nel 2002; lavoro che dura la bellezza di 12 anni per arrivare alla versione in cui è adesso.
Nel 2002, infatti, trovai il volto del mio Orpheus, Ville Valo; è anche grazie ad una bella conversazione avuta con lui che la storia oggi è quella che è, e di questo glie ne sarò eternamente grata e magari un giorno la riuscirà anche a leggere.
Ma come è il mio Orpheus?
Diciamo che la storia originale è l'ispirazione, ma la mia storia è scritta in chiave moderna e sarà ribaltata. Non vi svelo di più perché questa rubrica nasce con l'intento di incuriosirvi a leggermi. 👿
Qui vi riporto la traduzione della parte delle Georgiche di Virgilio,in cui si parla di Orfeo ed Euridice, la versione secondo me più bella.
«È vero, ti travagliano le ire di un nume; paghi una grande colpa.
Ti suscita questa punizione, se i fati non si oppongono,
Orfeo, ingiustamente sfortunato,
e duramente infierisce a causa della sua sposa rapita.
Quella, mentre ti fuggiva trafelata lungo il fiume,
non vide, fanciulla moritura, seguendo il greto,
nell’erba alta davanti ai suoi piedi un orribile serpente.
La schiera delle Driadi, sue coetanee,
riempirono di grida le cime dei monti;
piansero le rocche del Rodope e l’alto Pangeo
e la marzia terra di Reso
e i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia.
Egli, Orfeo,
cercando di consolare con la cava testuggine il suo amore disperato,
cantava a se stesso di te, dolce sposa,
di te sul lido deserto, di te all’alba, di te al tramonto.
Entrò persino nelle gole tenarie,
profonda porta di Dite, e nel bosco caliginoso di tetra paura,
e discese ai Mani, e al tremendo re ed ai cuori incapaci di essere addolciti da preghiere umane. Colpite dal canto, dalle profonde sedi dell’Erebo,
venivano tenui ombre e parvenze private della luce,
quante sono le migliaia di uccelli che si celano tra le foglie,
quando Vespro o la pioggia invernale li caccia dalle montagne,
madri e uomini, e corpi privi di vita di magnanimi eroi,
fanciulli e giovinette ignare di connubio,
giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori:
li imprigiona intorno la nera melma e l’orrido canneto di Cocito,
e l’infausta palude dall’onda morta,
e li serra la Stige aggirandoli nove volte.
S’incantarono persino le dimore e i tartarei recessi della Morte,
e le Eumenidi con i capelli intrecciati di livide serpi,
e Cerbero tenne le tre bocche spalancate,
e la ruota su cui gira Issione si fermò con il vento.
E già ritraendo i passi era sfuggito a tutti i pericoli,
e la resa Euridice giungeva alle aure superne,
seguendolo alle spalle (Proserpina aveva posto una tale condizione),
quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante,
perdonabile invero, se i mani sapessero perdonare: si fermò,
e proprio sulla soglia della luce,
ahi immemore, vinto nell’animo,
si volse a guardare la sua diletta Euridice.
Tutta la fatica dispersa, e infranti i patti del crudele tiranno,
tre volte si udì un fragore dagli stagni dell’Averno.
Ed ella: “Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo?
Quale grande follia? Ecco i crudeli fati mi richiamano indietro
e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti. Ora addio.
Vado circondata da un’immensa notte,
tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani”.
Disse e subito sparve,
via dagli occhi, come tenue fumo misto ai venti,
né più lo vide che invano cercava di afferrare l’ombra
e molto voleva dire;
né il nocchiero dell’Orco permise che egli attraversasse di nuovo l’ostacolo della palude.
Che fare? E dove andare, perduta due volte la sposa?
Con quale pianto commuovere i Mani, quali numi invocare?
Ella certo navigava ormai fredda sulla barca stigia.
Raccontano che per sette mesi continui egli pianse,
solo con se stesso sotto un’aerea rupe presso l’onda dello Strimone deserto,
e narrava la sua storia nei gelidi antri,
addolcendo le tigri e facendo muovere le querce con il canto:
come all’ombra di un pioppo
un afflitto usignolo lamenta i piccoli perduti,
che un crudele aratore spiandoli sottrasse implumi dal nido:
piange nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto,
e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.
Nessun amore o nessun connubio piegò l’animo di Orfeo.
Percorreva solitario i ghiacci iperborei e il nevoso Tanai,
e le lande non mai prive delle brine rifee,
gemendo la rapita Euridice e l’inutile dono di Dite.
Spregiate dalla sua fedeltà le donne dei Ciconi,
fra i riti divini e notturne orge di Bacco,
fatto a brani il giovane lo sparsero per i vasti campi.
E ancora mentre l’eagrio Ebro volgeva tra i gorghi il capo staccato dal collo marmoreo,
la voce da sola con la gelida lingua, “Euridice, ahi sventurata Euridice”,
invocava mentre la vita fuggiva:
Euridice echeggiavano le rive da tutta la corrente del fiume».
Qui di seguito vi lascio il link d'acquisto del primo volume:
Nel prossimo articolo vi parlerò del seguito.